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Forma e sostanza: una storia di design

Vi sono contesti in cui il processo di innovazione è un pendolo che oscilla tra estetica e funzionalità: qual è il punto giusto in cui fermarlo nella sua corsa?

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Quella che trovate qui è una storia di design, una storia che parla di allineamento tra tecnica ed espressione, una storia di forma che segue la funzione. Il direttore artistico di un’azienda dal forte connotato tecnologico ha l’obbligo di essere una chimera, o al peggio un minotauro: un soggetto che partecipa in parti più o meno uguali a due mondi, spesso di per sé incompatibili. Un “monstrum”, come dicevano i latini, un “prodigio” una cosa che non appartenendo di diritto a nessuno dei due mondi incute contemporaneamente paura e stupore.

Immaginate allora di essere il direttore artistico di un’azienda che realizza cooking suites, cucine professionali su misura per il livello più alto del mercato, che il più delle volte si inseriscono in progetti con cucina a vista. Complessi operativi, strumenti di grandissima precisione dedicati ai migliori chef sulla piazza, che devono contemporaneamente essere esteticamente adeguati al gusto di locali cutting edge sul piano del design, frequentati da clientela con capacità di giudizio estetico di primo piano.

Se foste quel direttore artistico, quale motivo considerereste valido per sconvolgere la vita di un team di prodotto, spingendolo a ripensare interamente un processo e ad alterare un percorso operativo? La risposta potrebbe essere “qualunque cosa faccia scattare un allarme sul piano estetico”; oppure “qualunque cosa possa dare il via ad un miglioramento funzionale”.

La persona che dovete immaginare sta nel mezzo, e direbbe quindi “ogni elemento esteticamente immotivato deve costituire pretesto per un miglioramento funzionale, che produca nel contempo un riequilibrio estetico”.

Eccolo lì, a metà tra i due mondi, alla ricerca costante dell’unione tra forma e funzione, da qualunque parte il cerchio che porta dall’una all’altra cominci.

Un rubinetto “inadeguato”, un pezzo di buona fattura e funzionalità, ma esteticamente fuori luogo nel contesto della cooking suite, può essere una buona ragione per ripensare un intero processo? Si tratta comunque di un prodotto di alta gamma, realizzato con materiali di primo piano, e in linea con lo stato dell’arte del mercato.

Lo guardate, montato su di un prototipo di cooking suite ad isola. È di ottimo ottone cromato, ha una meccanica interna longeva e collaudata. Eppure a voi dà noia, come una stanza di casa riordinata a vostra insaputa nella quale manchi qualcosa che però non sapreste identificare. La sua canna arcuata fa a pugni con gli elementi lineari e regolari della cooking suite; le sue manopole tradizionali, tonde, non si adattano alle linee della cucina, e il suo collegamento al piano ha un che di posticcio.

Quel rubinetto è lì come un paio di pantaloni stonati, come un colpo di batteria fuori tempo, e non sapete darvi pace. La parte più tecnica di voi, allora, comincia a chiedersi se sia davvero necessario mantenerlo, inizia a scavare come una termite. Va alle radici del concetto stesso del rubinetto in cucina, pensa e ripensa a come uno chef dovrebbe utilizzarlo.

È sempre nello studio dell’atto di trasformazione culinaria che si trova il principio delle risposte.

I primi pezzi del puzzle si sistemano al loro posto nel momento in cui vi accorgete che in una cucina a isola, ruotando di 360 gradi la canna questa non ha blocchi, e potrebbe idealmente ruotare fino a versare acqua su una friggitrice in funzione postavi a fianco. Subito dopo vi accorgete che per attivare il flusso dell’acqua lo chef o uno della sua brigata ha bisogno di sporgersi per raggiungere ed aprire le manopole, e nell’azione a volte concitata del servizio di cucina potrebbe dover allungare il braccio sopra ai fuochi, attraverso pentole in cottura, o semplicemente compiere un movimento scomodo.

La funzione, è sempre lì che si torna; e dato che la forma segue la funzione, tutto torna: ecco l’occasione per una forma nuova, che segua un ripensamento della funzione.

Quando l’idea si fa chiara buttate giù dal letto qualche tecnico: sono le undici e mezza di sera, ma un’idea non può aspettare. Prendete qualche maledizione, fa parte del gioco, ma subito dopo parte un “perché no?”. La mattina dopo c’è un team che lavora, ci sono domande che fioccano, persone che fanno la spola da un reparto all’altro.

Il capo dei progettisti chiede, quasi parlando tra sé e sé:

“Il comando dell’acqua può essere posizionato in modo da essere più comodo? Abbiamo modo di favorire la performance culinaria riducendo tempo d’azione e rischio d’errore?”

Nella cooking suite che avete davanti tutto è studiato per la massima ergonomia: le manette di controllo delle funzioni di cottura sono perpendicolari al piano, guardano l’operatore, in così da adeguarsi in modo naturale al movimento del polso. Allo stesso tempo, però, portano marcate al laser una scala graduata, in modo da dare sempre la visione esatta della potenza di fuoco impiegata, e un meccanismo micrometrico a scatto che consente allo chef di “sentire” di quanti gradi stia ruotando la manetta stessa.

La soluzione è lì davanti a vostri occhi: il rubinetto deve avere una singola manopola/miscelatore sulla plancia, accanto alle manette delle funzioni di cottura; i comandi devono stare tutti nella stessa area, tutti raggiungibili e controllabili dalla medesima posizione, o con spostamenti minimi. Per i clienti che lo desiderano deve essere disponibile anche un controllo elettronico a 4 pulsanti. La forma segue la funzione: la manetta del rubinetto prende il suo posto in un ordinato insieme di comandi, tutti coordinati sul piano estetico, tutti allineati dal punto di vista formale, ed eventualmente su tutti e due i lati di un monoblocco ad isola. Il manettino del miscelatore deve resistere agli abusi, stare aperto senza interferire con il passaggio, deve avere una sicura per evitare che qualche cuoco lo apra per sbaglio.

La canna del rubinetto, invece, deve essere mobile ma controllabile.

Qualcuno dice: “dobbiamo metterla in alto, più in alto, in modo da non interferire con le operazioni che avvengono sui piani cottura”. Qualcun altro aggiunge: “Ok, ma non tanto da intralciare il pot rack”.

Sul tavolo appare uno degli elementi verticali della cooking suite. Il tecnico che l’ha portato dice “questi sono tutti squadrati, forse possiamo adattarne uno per rialzare la canna”.

Vi accorgete che applicare il rialzo riporta immediatamente la torre del rubinetto all’equilibrio formale: nessuna curva in mezzo agli elementi lineari, angolari dell’insieme. Ancora la forma che segue la funzione. E tutto sarà prodotto in un metallo ancora migliore: acciaio inox.

L’ultimo passo è la canna: deve raggiungere la maggior parte possibile di punti sulla cooking suite, perciò è chiaro che deve essere lunga, più lunga di quella del rubinetto precedente; questo dà finalmente al rubinetto quell’aspetto preminente che deve avere sull’intero complesso: il faro o il cupolino in una moto, la griglia del cofano di un’auto, il cannone di un carro armato. Però la lunghezza aumenta il rischio di gettare acqua in punti pericolosi.

“Applichiamo dei blocchi” è l’idea più sensata che si sente. All’interno della torre vengono inseriti dei blocchi regolabili: all’innesto della canna è possibile bloccare il suo arco di rotazione, decidendo quali punti debba raggiungere e quali no.
Ecco, la forma è diventata la funzione. La metamorfosi è completa. Ars Addit Naturae.

Se foste stati quel direttore creativo, o uno dei membri del team di lavoro, avreste appena assistito alla nascita di MFons, la fonte che porta l’acqua in una cooking suite Marrone; il risultato di un processo di trasformazione non dissimile a quello che compie la natura, quando seleziona le forme per la loro funzionalità. Un processo di trasformazione che però è tutto frutto della mente e dell’occhio umani, della loro capacità di calare soluzioni nella realtà grazie all’attenta considerazione delle regole che quella realtà governano.

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